Nori De’ Nobili. La viaggiatrice immobile

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Nori De’ Nobili. La viaggiatrice immobile

 

simona-bramati-giardino-nori5 artisti al Museo Nori De’ Nobili-Villino Romualdo di Trecastelli, Ripe (Ancona)
Fino al 14 dicembre 2014

La mostra “Nori De’ Nobili. La viaggiatrice immobile”, visitabile fino al 14 dicembre 2014 al Villino Romualdo di Trecastelli, è curata da Annalisa Filonzi e vede la partecipazione di cinque artisti anch’essi di origine marchigiana, tre donne e due uomini: Simona Bramati, Allegra Corbo, Giovanni Ghiandoni, Luca Lavatori e Patrizia Molinari. L’esposizione vuole mettere in evidenza che l’arte e l’artista stesso sono per antonomasia crocevia tra culture, influenze e storie provenienti da tutto il mondo, in quanto ogni opera d’arte rappresenta la summa e l’apice culturale dell’epoca in cui viene creata. Arte come riflesso del mondo e della società, arte come stimolo all’integrazione e alla necessità di porsi e rispondere a delle precise domande, è così da sempre ed è così soprattutto in questo momento culturalmente difficile e socialmente instabile. L’esposizione segue il workshop che si è tenuto il 25 ottobre al Museo Nori De’ Nobili, in cui gli artisti hanno avuto modo di conoscere la figura e l’opera di Nori De’ Nobili e ispirandosi alla sua intensa storia, hanno realizzato delle opere appositamente per la Mostra.

 

Immagine: Simona Bramati, Il Giardino di Nori 

 

 

Saggio in catalogo di Annalisa Filonzi curatrice della mostra:

 

Cinque viaggiatori si sono messi in cammino per incontrare Nori de’ Nobili. Cinque artisti hanno preso in mano la loro valigia di emozioni e si sono confrontati con una figura sconosciuta dell’arte del ‘900. In cinque, da strade diverse, hanno percorso un viaggio interiore per incontrare una pittrice chiusa per trenta anni in una casa di cura, e hanno trovato lei: una donna di una personalità fortissima che attraverso il suo sguardo ha catturato le visioni di ognuno e si è imposta sul loro immaginario.

Intelligente, libera, colta, Nori de’ Nobili si scontra con la realtà di un secolo che vuole una donna sottomessa; lucida fino alla sua fine, crea attraverso la pittura uno spazio atemporale: dai tralicci dell’elettricità che fanno da sfondo ai suoi primi quadri, quando è libera di viaggiare attraverso le sperimentazioni e le avanguardie, al tempo quasi metafisico dei templi greci di quando è chiusa in manicomio. Eppure fuori scorre un secolo pieno di trasformazioni, mentre lei vive un tempo sospeso, lontana dalla Storia.

Trenta anni in manicomio e un solo contatto con la realtà: la pittura. L’autorappresentazione diventa così autoaffermazione. Ritraendosi, vive tutte le vite che una donna come lei avrebbe voluto vivere, e intanto osserva il suo decadimento. Vive una vita finta, circondata da maschere; nella fantasia dipinta dei suoi abiti si concentrano tutti i desideri che non ha vissuto. La presenza spirituale del gatto compensa la luce che si spegne nei suoi occhi. Ne è consapevole e testimone lucida fino alla fine, quando l’oscurità del male ne appanna il volto, quando una figura alata si innalza in cielo, premonitrice, di una finalmente conquistata leggerezza.

Pur nella diversità tra le due storie, il pensiero va ad un’altra pittrice ora riscoperta dall’arte: Frida Khalo, e non solo per il genere dell’autoritratto e la vivacità dei colori; con lei Nori de’ Nobili condivide alcuni attributi: la marginalità, perché donna e non europea l’una, e perché rinchiusa l’altra; la condizione di prigioniera, una del suo stesso corpo, l’altra di parenti e situazioni diverse; ma libere entrambe, e attraverso il dolore.

Emozioni forti, inaspettate, si impongono incontrando questa artista. Il confronto con lei riapre ferite rimarginate. I cinque artisti intrecciano la propria storia con quella di una donna abbandonata dalla Storia.

nori-de-nobili-locandinaGiovanni Ghiandoni è attratto dall’espressionismo presente nelle opere dell’artista: il segno di una follia lucida, collettiva, che rende confusa e grottesca quella realtà, come quella del nostro secolo: tra frammenti e dettagli che si sovrappongono, le immagini in bianco e nero del fotografo confondono le tecniche; e la realtà, una volta danneggiata, diventa astrazione.

In Simona Bramati c’è una vera e propria identificazione con la pittrice, tanto da farle avvertire una fortissima sensazione, quasi telepatica, al primo incontro: ne nascono dei ritratti di piccole dimensioni, estremamente concentrati, che ritraggono la de’ Nobili, come se la modella, che si avverte lì di fronte, fosse allo stesso tempo presente e pronta a sfuggire, a sovrapporsi con la propria immagine. È il trasformismo di Nori, infatti, che rende la pittura meno precisa del solito, e mette in evidenza i particolari: un vestito dai grandi fiori, una bocca a cuore, lì, in attesa.

Patrizia Molinari restituisce una visione molto intimista della forza e del coraggio della pittrice. Abituata a lavorare con la luce, mette in mostra, attraverso un labirinto di specchi graffiati, quella stessa luce che in quegli occhi si spegne: l’anima sfregiata di una donna ferita nella sua essenza, non risparmiata neppure dalla malattia che la offende nella parte più intima, essenziale del suo essere donna. Gli specchi riflettono tante immagini del visitatore, lo frammentano in tanti sé, come molteplice è la visione che ha di se stessa la pittrice, finché, avvicinandosi, si accorge che la propria immagine non è del tutto visibile, perché è graffiata, e lo smarrimento prevale sulla forza.

Luca Lavatori sa che ognuno ha le proprie ferite. Possono essere ferite fisiche o mentali, ma sempre ci accompagnano. Le sue opere sono un viaggio nella complessità esistenziale, che non vuole essere semplificata, ma anzi accoglie il dolore come parte della poesia della vita. Nel suo trittico propone così una sovrapposizione tra la cicatrice del proprio torace e il viso di Nori de’ Nobili: una sovrapposizione di cuore e mente, sedi dell’emozione, trasformati in forma apotropaica; una visione in fondo non del tutto negativa della malattia, vista come fuga dall’orrore materiale della realtà: “L’oggi si adorna/ di malattia/ scampando così/ alle buste del discount”, scrive l’artista in una poesia.

Nelle opere di Allegra Corbo si esprime la grande drammaticità della vita della pittrice; è un’istallazione di sculture e quadri a tecnica mista che mette in scena quegli elementi che come un collage sono rimasti incollati sulla pelle dell’artista: la tristezza dei volti, l’affollamento dei personaggi, le maschere, l’intimità drammatizzano – nel senso di “mettere in scena” – attraverso i particolari, gli elementi di una vita. Su tutti i sentimenti prevale quel desiderio di libertà, la necessità del volo, rappresentato attraverso la scultura sospesa, instabile, figura antropomorfa realizzata con elementi naturali, tronco e radici e foglie e segni che si mescolano, oscillando, con le ombre, in un ritmo magico, sciamanico che vuole scacciare il dolore attraverso la leggerezza di una danza.

È emozionante per me perdermi e ritrovarmi in questo labirinto di emozioni. Cinque viaggi, più uno, il mio, attraverso un’artista finora nascosta ma importante del ‘900: fondamentale per capire e ricordare tutte le inquietudini di questo secolo tremendo, anche quelle private, che finiscono per scomparire nella tragicità di una Storia più immensa della storia di un singolo essere umano.

È questa la funzione che oggi un museo deve avere: non più luogo di memoria polverosa, ma spazi di produzione, laboratori dove le emozioni non sono morte appese ad un chiodo, ma si rivivono attraverso le visioni sempre diverse e divergenti di artisti e persone pronte a mettersi alla prova.